mercoledì 16 ottobre 2013

La coltivazione del vero benessere


Equilibri 

La nostra società, come tutte le società dell’occidente sviluppato, è considerata una società del “benessere” e in effetti, al netto delle situazioni di disagio e povertà, che in questi tempi di crisi si vanno purtroppo diffondendo un po’ ovunque, viviamo la condizione privilegiata di poter accedere, anche se in misura diversa, a tutta una serie di servizi e beni che rendono la nostra vita “confortevole”. A scavare un po’ di più in queste considerazioni piuttosto generiche, si scopre che dietro questa idea di benessere c’è sostanzialmente l’apprezzamento della capacità di spendere e consumare. Il benestante è colui che può permettersi di comprare più cose.

Nella realtà, a questa condizione di agio materiale raramente corrisponde una situazione di benessere profondo della persona, inteso come una condizione di “salute” complessiva, della mente, del corpo e dello spirito. Tralasciando per un momento quest’ultima dimensione, vi propongo alcune riflessioni personali sul legame tra benessere psico-fisico e pratica delle arti marziali e del Qigong.

Già nell’utilizzo dell’aggettivo “psico-fisico” mettiamo insieme due termini che nella realtà della nostra vita quotidiana sono spesso distinti. Siamo infatti portati a pensare che il benessere sia la sommatoria di una situazione positiva a livello mentale e di una buona forma fisica, per lo più intesa come la semplice mancanza di disturbi e malattie. Due elementi diversi e relativamente indipendenti, come se il benessere fosse un piatto composto da una pietanza e da un contorno, preparati separatamente e gustati insieme.

Con un po’ di sforzo arriviamo ad ammettere che una condizione influenza l’altra: siamo ormai abituati al concetto di malattia psico-somatica e per la maggior parte di noi un fastidio di tipo fisico si traduce automaticamente in un peggioramento dell’umore e delle prestazioni intellettuali.

Detto questo, che esperienza diretta abbiamo noi del benessere profondo? È una condizione che sperimentiamo spesso oppure si tratta solo di brevi pause tra un disagio e l’altro? È un’esperienza che ci coinvolge in modo totale, con noi stessi, gli altri e il mondo circostante, o è qualcosa che scorre in superficie, pronto a dileguarsi al minimo impedimento? Ancora, è qualcosa che dipende da condizioni esterne o la sua radice è dentro di noi? È una condizione emotiva, come gioia, eccitazione, soddisfazione, contentezza, o è qualcosa di più?

Interrogarci a fondo su questi punti potrà aiutarci a chiarire molte cose, anche su noi stessi. L’idea che mi sono fatto io del benessere psico-fisico è che esso è più una condizione di fondo, una disposizione, che una collezione di momenti positivi. Per me il vero benessere non è avere una forma fisica perfetta ed essere perennemente contenti, ma sentire che siamo in grado di superare le difficoltà che ci si presentano, di affrontare i disagi, anche i cambiamenti di umore o i piccoli fastidi fisici, perché abbiamo dentro di noi le energie per poterlo fare, e lo facciamo.

Non si tratta dunque di una condizione statica, che fotografa una improbabile condizione di perfezione, ma di un processo di continuo adattamento, che ci consente di rispondere in maniera appropriata ed efficiente alle perturbazioni che si producono all’esterno e all’interno di noi, recuperando ogni volta la nostra “centratura”, fisica, mentale e spirituale. Che si tratti di una malattia, di un’emozione negativa, di una difficoltà relazionale, di una condizione di stress mentale o di qualsiasi altra cosa che turbi il nostro equilibrio, la persona che gode di un livello elevato di benessere psico-fisico è quella in grado di recuperare in breve tempo, efficacemente, l’equilibrio perduto.

Benvenuta malattia

Questa visione, se realmente coltivata e vissuta, cambia radicalmente la percezione di sé e del proprio rapporto con il mondo esterno. Prendiamo ad esempio la malattia: questa non è più il nemico da combattere, il sintomo da sedare, il corpo estraneo da eliminare ma diventa piuttosto la manifestazione di un organismo che sta cercando di recuperare l’equilibrio perduto. Se abbiamo lavorato bene su noi stessi, se abbiamo abbastanza energia, questo processo di recupero avverrà in maniera naturale, noi dovremo solo assecondarlo e accompagnarlo.

Diceva Itsuo Tsuda che un corpo che apparentemente non si ammala mai è un corpo sordo, rigido, morto, in cui la degenerazione avviene ad un livello molto profondo, che coinvolge gli organi interni, e che è destinato prima o poi a crollare sotto il peso di una malattia grave e improvvisa. Un corpo davvero in salute è invece un corpo sensibile, reattivo, che continuamente si “ammala” e velocemente guarisce, in cui il raffreddore dura il tempo di un paio di starnuti e l’influenza si risolve nel giro di una notte.

Ma come si fa a sensibilizzare il corpo a questo livello? Come è possibile sviluppare la nostra capacità di tornare continuamente al centro, sia dal punto di vista fisico che mentale ed emotivo? Bisogna dire che non vi sono scorciatoie per questo, niente formule magiche, nessun “chakra” da aprire, nessun interruttore da spingere, nessuna pillolina da inghiottire, nessuna pratica segreta da apprendere. Si tratta piuttosto di intraprendere un percorso di conoscenza e trasformazione di sé, anche lungo e tortuoso, con i suoi momenti di arresto e caduta, le sue difficoltà, gioie e dolori, sviluppando piano piano il piacere del cambiamento e la gratificazione profonda della scoperta.

Alla base, occorre una assunzione di responsabilità verso sé stessi e gli altri. Occorre smettere di incolpare le altre persone o le circostanze per i nostri malanni e disgrazie, come pure smettere di delegare ad altri o ad altro la soluzione dei propri problemi e la guarigione. Abbandonare insomma i panni della vittima, dell’ammalato, dello sconfitto, abbandonare i sentimenti di recriminazione, il lamento contro il destino avverso, l’alibi della debolezza e dell’impossibilità.

Avevo una scatolina di metallo piena di pillole, che portavo con me anche in ufficio e in viaggio. L’analgesico per le emicranie, l’antinfiammatorio per le faringiti, l’antidiarroico, l’antistaminico… Ad un certo punto ho deciso di rinunciare a tutti questi “anti-qualcosa”, e ho cominciato ad accettare i miei fastidi, ad attraversarli, a cercare di capire di cosa si trattasse, cosa avessero da dirmi. E ho imparato molto. I mal di testa, i mal di gola, le riniti non mi hanno abbandonato del tutto, ma sono diventati più “trasparenti”, meno sostanziali, arrivano come nuvolette nel cielo e velocemente si disperdono. Constato che il mio corpo reagisce agli acciacchi, alle piccole malattie, con maggiore elasticità ed efficacia.

Ma, come dicevo, è un percorso graduale, che richiede il suo tempo. Assumere su di sé la responsabilità del proprio destino e sviluppare fiducia e consapevolezza, sono questi gli “ingredienti” psicologici che rendono possibile ed alimentano un processo di cambiamento profondo, sia del corpo che della mente.

Centering

Non vi sono sistemi preconfezionati da applicare, formule, metodi del tipo “soddisfatti o rimborsati”; ma vi sono certo cose concrete che si possono fare, nuove abitudini da coltivare, spazi da esplorare. Alla fine, non è tanto importante la strada che si intraprende, quanto il modo in cui la si percorre. Per me il Qigong e le arti marziali, il Taijiquan in particolare, sono stati di grande aiuto, offrendomi infinite occasioni di conoscenza di me stesso, mostrandomi quanto di mentale c’è nei mie limiti fisici e quanto di fisico c’è nei mie schemi mentali, permettendomi di esplorare nuovi schemi di attivazione dell’ energia interna, insegnandomi la pazienza, la vanità del mio ego, l’inutilità delle mie ambizioni.

Una cosa è certa: senza pratica non c’è trasformazione, e in questo le arti marziali tradizionali hanno molto da insegnare. Nel Taijiquan abbiamo un esercizio che chiamiamo “centering”, in cui due praticanti sono uno di fronte all’altro e cercano reciprocamente di sbilanciarsi utilizzando il contatto delle mani e delle braccia. L’abilità che si apprende è quella di neutralizzare le spinte che si ricevono senza opporre forza a forza ma cedendo secondo traiettorie circolari, avendo al tempo stesso cura di conservare il proprio radicamento a terra e dunque l’equilibrio e la stabilità. Non è una competizione, anzi il compito di chi spinge è quello di aiutare il compagno a capire come gestire la situazione di squilibrio e tornare al suo centro.

È una bella metafora di tutto quello che ho cercato di dire in questa riflessione, e nelle arti marziali le metafore diventano corpo, respiro, energia, movimento.

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